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Immagine del redattoreLuca Riolfo

Nel cuore di Genova: I Rolli Days - II parte -


Torniamo sui nostri passi solcando via Garibaldi, e ancor prima di dirigerci all’adiacente civico 4, una strana e deformata macchia sul lastricato attira la nostra attenzione.

Genova è frenetica, le persone corrono e si affannano per raggiungere negozi ed uffici, pochi sono quelli che camminano con il naso all’insù, o all’ingiù a seconda dell’evenienza. Tutte le grandi città sono così in fondo, veloci, dal passaggio obbligato.

Ma la nostra mission è ben diversa, siamo qui in veste di ospiti, dal passo trekkinante e affamato di bellezza, quella che risiede molto spesso nelle storie assurde che mai prima d'ora avevamo avuto la fortuna di conoscere.

La macchia per terra è un nostro personale escamotage, ma è strettamente correlata alla leggenda del fantasma di Nina Giustiniani, dai più conosciuta come l'amante infelice di Cavour.

La marchesa Anna Schiaffino Giustiniani, meglio nota come Nina, visse tra il 1807 e il 1841, dedicando la sua vita ad organizzare uno dei circoli politici repubblicani più influenti della Genova Ottocentesca.

Un ruolo, il suo, che la portò a fare la conoscenza nel 1830 del conte Camillo Benso, in visita da Torino. I due s’incontrarono mentre lei era già sposa di Stefano Giustiniani, uno dei più illustri rappresentanti della nobiltà genovese e vicino agli ambienti di corte del re Carlo Felice di Savoia.

Cavour arrivò a Genova per iniziare il suo servizio come ufficiale presso il Genio dell'esercito del Regno di Sardegna e, data la vena patriottica della marchesa, l'incontro con Nina fu inevitabile. Da quel momento iniziò una lunga e complicata relazione, accompagnata da un intenso scambio di lettere, arrivando ad inviargliene fino a centocinquanta in un solo anno. 

Tuttavia, quando arrivò il momento in cui Cavour venne richiamato a Torino, la relazione cessò di colpo infliggendo un duro colpo alla marchesa che, da quel momento, cadde in uno stato depressivo irreversibile. Nonostante il frenetico contatto epistolare e svariati tentativi da parte della marchesa per riavvicinarsi al Conte di Cavour, la distanza continuava a rappresentare il vero grande ostacolo tra i due.

Addirittura nel 1835, quando sembrava che un riavvicinamento fosse possibile, un'epidemia di colera costrinse gli amanti a trattenersi ai loro rispettivi domicili.

Nonostante gli sforzi della donna per poterlo raggiungere non si placarono nel tempo, fatale fu la risposta del Conte che la invitò a non proseguire a vessarlo oltre.

Una risposta che assunse fin da subito il sapore del rifiuto, e che portò Nina a tentare più volte il suicidio, riuscendoci poi nel 1841, all'età di 34 anni, gettandosi da una finestra di palazzo Lercari-Parodi, poco distante dalla casa della sua fanciullezza.

Alla sua morte né il marchese Giustiniani né le famiglia di origine degli Schiaffino e dei Corvetto vollero che Nina fosse seppellita nelle rispettive tombe di famiglia a Voltri, Recco e Nervi.

E fu così che nacque la leggenda nella quale siamo inciampati “vedendo quell’ombra a terra”, la quale narra che, ogni anno a fine aprile, all'anniversario della sua morte e sotto le finestre di Palazzo Lercari Parodi, il fantasma di Nina faccia comparire la macchia del suo corpo riverso a terra.

Un’immagine alquanto macabra ma che ci permette di comprendere quali e quante storie si celino dietro le facciate di questi palazzi.

Ci basta ora attraversare la strada per raggiungere Palazzo Tobia Pallavicino, situato al numero 4, e tutt’oggi sede della Camera di Commercio di Genova.

Aspettiamo appena una manciata di minuti prima di accedere, e davvero bisogna ringraziare i numerosi volontari che si prodigano nella gestione dell’afflusso dei visitatori per questa edizione; menzione d’onore va di certo all’Associazione Nazionale Carabinieri Nucleo Regionale Volontariato Protezione Civile Liguria.


"Stupende a riguardarsi nell'alto torreggiavan le moli di superbi palagi: sorgevano a piè delle rupi le mermoree magioni de' vostri cittadini splendide al pari delle più splendide reggie, e a qualsivoglia città nobilissima invidiabil decoro".


Palazzo Pallavicino Carrega Cataldi

Il palazzo fu costruito tra il 1558 e il 1561 da Giovanni Battista Castello detto "il Bergamasco" per Tobia Pallavicino, un patrizio genovese e commerciante di allume che aveva acquistato il terreno per una cifra modesta di 14.520 lire genovesi. Bartolomeo Riccio, Domenico Solari e Antonio Roderio co-parteciparono alla realizzazione del palazzo. Originariamente, l'edificio cinquecentesco era costituito da un blocco cubico di due piani con due mezzanini. Nel 1704, il palazzo passò di proprietà a Giacomo Filippo Carrega, che insieme al figlio Giambattista, iniziò i lavori di ampliamento che ne delinearono la struttura attuale.

Il giardino venne trasformato in cortile interno, si aggiunse un piano al palazzo e la facciata principale venne profondamente rivista. 

La famiglia Carrega diede principale attenzione alla decorazione della Galleria Dorata, realizzata da Lorenzo De Ferrari, considerata fin dagli albori una delle migliori espressioni del rococò genovese. 

Nel 1830, il palazzo venne svenduto dalla famiglia Carrega ai baroni Cataldi e, nella seconda metà del XIX secolo, a causa della crisi economica che attanagliò gran parte dell'antica aristocrazia, venne dato in locazione prima ad una ditta commerciale e poi ad un istituto di credito, perdendo progressivamente il suo fasto originario.

Dopo una breve introduzione nell’atrio saliamo la rampa di scale alla nostra destra ed accediamo al piano nobile.

L’antisala, che ha mantenuto l’affresco originale, prende spunto dalle gesta di Apollo a cui il Pallavicino si sentiva affine. Come Apollo proteggeva le sue muse intente a comporre l’armonia musicale così il committente ci invita a porre attenzione sull’importanza dell’individualità (degli strumenti) per comporre una buona sinfonia.

Tramite il ballatoio accediamo alla galleria dorata, entrambi voluti e fatti costruire dalla famiglia Carrega.

Numerosi sono gli specchi presenti in questa sala, posizionati ad arte ed in grado di riflettere l’oro degli stucchi esaltati dalla luce naturale proveniente dalle finestre. Una sensazione di esser finiti in un immenso spazio cosmico ci pervade fin da subito.

Anche lo specchio collocato sul grande tavolo al centro della sala prende parte all’apparentemente complessa scenografia, fungendo quasi da enorme lente d’ingrandimento, dandoci un’ulteriore occasione per soffermarci ad osservare ogni minuzioso dettaglio dell’arioso affresco della volta, rappresentante le gesta di Enea.

La Galleria d'oro

La galleria dorata si pose a chiusura degli ampliamenti verso valle voluti da Giambattista Carrega, e divenne il nuovo luogo di rappresentanza della magnificenza della famiglia. 

Questo ambiente rappresenta il più ricco e fastoso salone di tutta Strada Nuova, un capolavoro del Rococò europeo di straordinaria bellezza. 

Si tratta di un gioiello che con il suo sfrenato luccicare d'oro lascia a dir poco sbigottiti ed ammaliati gli avventori. Ed è proprio quel color oro che, disteso in ogni angolo, giunge a contornare il grande affresco della volta centrale orientato sul cielo dell'Olimpo. 

L'intero ciclo decorativo, eseguito da Lorenzo de Ferrari, è composto dall'affresco centrale e da altri minori presenti nelle lunette laterali, arrivando a “fondere” in un’unica scenografia, pareti, volta, arredi e decorazioni.

Il rinnovo organizzato dalla famiglia venne affiancato dall’impreziosimento della Cappella Carrega, la cui architettura illusiva, ancora una volta al centro della scena, funge da pregevole contorno ad un’altra opera del Puget, ovvero la Madonna con Bambino che, come nel caso del Ratto di Elena, è conservata nel museo di Sant’Agostino, e sostituita da una copia.

Il frazionamento dell'edificio è stato evitato con l'acquisto, nel 1922, da parte della Camera di Commercio, cui si devono anche i numerosi restauri compiuti dopo l'ultima guerra, durante la quale la galleria dorata fu danneggiata da un bombardamento, e più recentemente in occasione del 2004, anno in cui Genova è stata Capitale Europea della Cultura.

A questo punto ci concediamo un po’ d’aria, e solchiamo lo stretto vicolo d’innanzi a noi, via Rocco Lurago, e ci apprestiamo a compiere una bella passeggiata attraversando la caotica Piazza del Portello, caratterizzata dall’innesto delle Gallerie Nino Bixio e Garibaldi, sovrastata dal minareto di Palazzo Lomellino.

Attraversata via Interiano raggiungiamo Piazza del Fronte Moroso, oggi delle Fontane Marose,  su cui si affacciano altri palazzi eleganti, come Palazzo Paolo e Niccolò Interiano e Palazzo dei Marmi, a lesene bianco nere, che oggi ospita il Banco di Sardegna. Per mezzo di Salita Santa Caterina prima e Salita Dinegro poi, ci dirigiamo verso piazza Corvetto per raccontarvi di una bizzarra curiosità.

Piazza Corvetto si presenta come una grande rotonda molto trafficata al cui centro svetta la statua di Vittorio Emanuele II di Savoia a cavallo.

La piazza, intitolata a Luigi Emanuele Corvetto, uomo politico genovese dell'epoca napoleonica, ospita anche una statua di Giuseppe Mazzini. Ed è proprio a proposito di queste due apparentemente innocue statue che scopriamo esistere, nella popolare tradizione genovese, che si perpetra da generazioni, uno sfottò davvero singolare.

Come racconta Giampiero Orselli in "Genova, strade misteriose" Mazzini tiene un fascio di fogli in mano con aria sofferente, mentre il secondo gli porge il cappello. 

Secondo i maldicenti sembra proprio che Mazzini abbia bisogno di correre in bagno e che il re gli fornisca il cappello per i suoi bisogni.

Certo, la presa in giro è decisamente un po' scurrile, e il re non fa certo una bella figura, soprattutto se si pensa alla fine alla quale è destinato il suo cappello. Ma questa è una scenetta che non nasce per caso: Vittorio Emanuele II non era particolarmente apprezzato dai genovesi. 

Fu infatti quel sovrano a ordinare la repressione dei moti di Genova del 1849. Ogni tentativo del camallo di fotografare le due statue, entrambe in un unico scatto risulta vano, così, trovata una vecchia cartolina sul web da inserire nell’articolo, ci incamminiamo su via Roma, costeggiando il palazzo della Prefettura in largo Lanfranco. Si tratta del Palazzo intitolato ad Antonio Doria e costruito verso la metà del 1500, isolato presso la porta dell’Acquasola. Nel 1624 perviene agli Spinola che lo terranno sino al XX secolo. Venduto al comune nel 1876 verrà in seguito ceduto alla provincia e mutilato a più riprese per agevolare la costruzione dell’attuale assetto stradale. 

Caratteristica di via Roma è quella di presentare un design urbano composto da un blocco unico di edifici, addossati gli uni agli altri, senza proporci alcun tipo di pertugio per poter fruire di qualche scorciatoia in grado di condurci verso la nostra meta prefissata per la pausa pranzo.

Seguite noi e. . . preparatevi a perdervi!

Fate molta attenzione a questa serie di vie da percorrere in rapida sequenza: Salita Santa Caterina a ritroso, Piazza Rovere al cospetto dell’omonimo palazzo nobiliare (la discendenza Della Rovere conta per la Liguria due storiche figure papali, come Sisto IV e Giulio II), via di San Sebastiano ed infine, finalmente aggiungiamo noi, vico Testadoro.

Senza troppi preamboli, i genovesi più romantici troveranno nel nome di questa via un sapore famigliare, che sa un po’ di storia e un po’ di casa: benvenuti “Da Maria”.

Chi non l'ha mai visitata deve assolutamente andarci; aperta in questo caruggio nel 1946, ha ospitato ben tre generazioni di genovesi e gente di passaggio come noi; qui i piatti presenti nel menù sono quelli tipici della profonda tradizione ligure.

Ma non è solo la deliziosa cucina a rendere unica questa esperienza, anche l'atmosfera del locale fa la sua buona parte: tovaglie bianche e rosse a quadretti, sedie diverse e tavoli rustici creano un'atmosfera calda, accogliente e tradizionale. Lungo i tavoli, si siedono persone sconosciute che si mescolano e socializzano, incontrando nuove facce o clienti abitudinari, affezionati al luogo da anni. Noi ci accomodiamo accanto a due simpatici anzianotti dall’accento misto genovese/calabrese che ci fanno davvero ridere. Nessuno dei due però sembra voler socializzare tanto tengono il capo chino sulla buridda e sui ravioli al tocco. Come abbiamo già accennato, la cucina di Maria offre piatti genuini e casalinghi, come si farebbero a casa, come quegli invitanti ravioli! Il menù è scritto a mano su carta e affisso alla porta, meglio fotografarlo prima di sedersi, onde evitare la spola atta a ricordarsi cosa si vuol ordinare. Una scala porta al piano superiore diviso in stanze, dove un piccolo passavivande trasporta i piatti dalla cucina al piano di sopra. Le donne che lavorano lo usano anche per comunicare gli ordini alla cucina, affacciandosi e gridando le portate. Fate solo attenzione ai numerosi elogi dedicati al locale affissi all’ingresso; della signora Maria se ne è parlato anche all'estero con articoli su New York Times e Le Monde.

Come scrivono ancora sul menù: "qui tutto è buono".



BALLATA PER GENOVA

E facendo fede al proverbio genovese “chi no sappa no lappa”, ovvero “chi non lavora non mangia”, noi ci rifugiamo in un buon stoccafisso accomodato e trenette al pesto avvantaggiato, con patate e fagiolini lessi, l’ideale per riprendere la nostra full immersion ai Rolli Days.

In apertura di questo speciale articolo, abbiamo omesso volutamente il fatto che questa prima edizione invernale dei Rolli Days, orientata all’esaltazione del Sacro e del Profano, abbia a che fare anche con un’artista che Genova l’ha sempre avuta dentro, fino al midollo. Parliamo ovviamente di Fabrizio De Andrè, il quale, attraverso la sua musica, ha sempre raccontato la storia della città: Sacro e Profano, Ballata Per Genova, è un omaggio al cantautore ligure per il 25 anniversario dalla sua scomparsa. Uscire dai sontuosi palazzi, percorrere strade fiancheggiate da antiche botteghe, pranzare in originali trattorie, fa capire quanto Genova sia realmente una città di contrasti, sia oggi che durante l'epoca della Repubblica aristocratica. Abbiamo visto come in quel periodo un piccolo gruppo di oligarchi estremamente ricchi ed influenti governava una vasta popolazione di persone estremamente povere e nessuno ha saputo descrivere la vita vibrante e le contraddizioni della Città come Fabrizio De André. Molto spesso, passando nei vicoli, ci accorgiamo esserci una Genova diversa da quella che abbiamo raccontato fino ad ora nelle nostre pagine, fatta da persone, uomini, donne e bambini, meno fortunati. 

È un mondo assai opaco in cui si svolgono esistenze altrettanto nobili e degne di essere raccontate, come ha sempre fatto De André nei testi delle sue canzoni. Tra via Garibaldi e i caruggi dove ci troviamo adesso, non c'è una vera e propria separazione, i mondi che ci si prospettano davanti convivono armoniosamente, con un continuo scambio.

Quando siamo nei nostri boschi, in solitaria, non è certo un aspetto che viviamo, ma la lezione che ci imparte la vita dei vicoli è quella di non giudicare nessuno, bensì considerare tutti come figli di questo mondo. Una prospettiva di lettura questa, unica e irripetibile, che probabilmente in Liguria, solo Genova ci sa offrire. 

Questo contrasto, descritto nei resoconti dei secoli XV e XVI, è rimasto come tratto distintivo della città, citato anche nelle lettere scritte da Dickens, Mark Twain, Stendhal e altri visitatori nel corso del XIX secolo, che rimasero sbalorditi dalla decadenza di alcuni vicoli, contrapposti all'oro e ai marmi splendenti dei palazzi e delle chiese.

Questa edizione dei Rolli Days si propone proprio come perfetta relatrice dei contrasti sociali di cui sopra, urbani e artistici che siano, capaci di creare un suggestivo incontro tra il bello e il brutto, tra il chiaro e lo scuro, tra il sacro ed il profano appunto. 

E per accentuare ancora di più questo stacco socio culturale, vi invitiamo a seguirci ancora lungo via XXV Aprile, con la pancia piena, fino a raggiungere piazza Giorgio Labò all’intersezione con vico Della Casana, abbandonando definitivamente i negozi borghesi per ritrovare invece quelle botteghe più semplici e tradizionali. Lasciato alle nostre spalle il Teatro Carlo Felice (anch’esso inserito nelle liste dei luoghi visitabili durante le giornate dedicate ai Rolli) seguiamo alcuni cartelli gialli che indicano la giusta via per raggiungere “il centro storico”, il porto antico, la Lanterna, e così via. Qui i profumi cambiano, la luce stessa cambia e, passo dopo passo, ci inoltriamo in quell’alveo che ogni volta che lo percorriamo ci sorprende con nuovi inediti scorci.

Il caso vuole che districarsi in questi caruggi ci porti al cospetto di una singolare e curiosa bottega, dal nome giusto per poter continuare a raccontare questo itinerario: “a cä do Dria”, dove strumenti e musica la fanno da padroni. Siamo finiti in via Macelli di Soziglia 34r, e sono proprio le note de “La Canzone di Marinella” ad invitarci ad entrare.

Ci accoglie Andrea Incandela, in arte “Dria do porto”, che ci racconta di come questa bottega sia in realtà sede di un’associazione musicale ligure, formata da numerosi soci, il cui obiettivo primario è, oltre la divulgazione della musica popolare tradizionale, il prezioso recupero di strumenti musicali dismessi per donargli una nuova vita. Il ricavato di questo lavoro, tolte le spese, viene investito in concerti, manifestazioni e, soprattutto, in beneficenza. Un vero e proprio ritrovo per gli amanti della musica in cui capita spesso di poter sentire suonare dal vivo diversi musicisti e vivere insieme a loro esperienze davvero uniche e singolari.

"Questa è la tua canzone Marinella, che sei volata in cielo su una stella e come tutte le più belle cose vivesti solo un giorno, come le rose".

Sono proprio le note di questa canzone a narrare la storia di Maria Boccuzzi (1920-1953), la sfortunata protagonista di cronaca nera.  La Marinella di Faber, era una prostituta, il cui corpo venne rinvenuto massacrato sul greto di un torrente. Sembra storia di ieri, ma è purtroppo storia di sempre. Una tragedia vissuta intensamente dal cantautore ligure, che si prese la briga di raccontare la vicenda esaltando in musica il connubio tra amore e morte. Una storia dedicata a una Maddalena moderna, estremamente terrena e disgraziata, che grazie alle parole di De André assunse l'aura di una figura celestiale, divenuta in seno a Genova, donna eterna ed indimenticabile. 

Un sacro e profano che si identifica perfettamente, nelle giornate dei Rolli, nella qui vicina chiesa intitolata ai Santi Maria Maddalena e Girolamo Emiliani, che raggiungiamo incalzando vico Della Rosa, proprio all’angolo delle vetrine di “a  cä do Dria”.



Santa Maria Maddalena

Tra le varie chiese del centro storico, a guardarne l’anno della fondazione, la chiesa della Maddalena è sicuramente una delle più antiche. Nascosta tra le strette strade circostanti, la facciata della chiesa spicca sulla piccola piazza antistante. Da qui parte il vico della Chiesa della Maddalena, una salita che la collega alla soprastante via Garibaldi, che ormai conosciamo come le nostre tasche. Le origini di questa chiesa risalgono al 1140, quando era solo una piccola cappella lungo la via Romana, la strada che attraversava la città da est a ovest al di fuori delle mura. Con la costruzione delle fortificazioni del Barbarossa, che di tanto in tanto spuntano a ricordarci quel tempo lontano, la cappella fu inclusa all'interno delle mura cittadine. Nel 1576, fu affidata ai padri Teatini che la restaurarono con il sostegno della famiglia Spinola. Il progetto fu affidato ad Andrea Ceresola, conosciuto come il Vannone, che supervisionò personalmente i lavori tra il 1585 e il 1587. Rispetto alla sua costruzione originale, la chiesa venne dedicata prima a Maddalena e successivamente a San Girolamo Emiliani. L'ingresso a trifora con l'ampia apertura centrale ad arco, visibile ancora oggi, fu realizzato proprio in quel periodo. Il portico, costruito nel 1589 e sostenuto da quattro colonne lisce, presentava una decorazione composta da cinque statue: al centro la Madonna con il bambino, circondata dalle quattro virtù cardinali. Le statue, realizzate da Giovanni Pisano nel 1300, sono attualmente in mostra presso il Museo di Sant'Agostino. All'interno della chiesa, un grande affresco dipinto da Sebastiano Galeotti nel 1729 nella navata centrale raffigura la Gloria di Santa Maria Maddalena. Inoltre, si può ammirare un importante crocifisso ligneo risalente ai primi del 1300, recentemente restaurato e collocato all'estremità della navata centrale.

Il Simbolismo dei Rosacroce

All'interno della chiesa, sul pavimento della navata sinistra, si trova una lastra marmorea decorata con il disegno di una rosa datata 1684; secondo un’antica leggenda qui riposerebbe uno dei numerosi adepti dei Rosacroce, ordine cavalleresco segreto diffuso a Genova fin dal Cinquecento. Esso è stato fondato attorno al 1400 da un pellegrino tedesco, con l'obiettivo principale di riformare in parte la dottrina cristiana dell'epoca; l’organizzazione dei rosacrociati è infatti molto simile a quella della massoneria prevedendo, primo su tutti, un giuramento di segretezza. Questo gruppo crede nella reincarnazione, in cui ogni anima è una parte dell’essenza universale cosmica o divina che prende possesso di un corpo fisico di volta in volta.

I Rosacroce sono uomini e donne che, attraverso lo studio, scoprono ed accolgono l'intima armonia che esiste tra l'universo e tutto ciò che ne fa parte, i cui insegnamenti non interferiscono minimamente con i concetti religiosi, e per questo motivo è davvero inusuale trovare un loro simbolo all’interno di una chiesa. Il mistero si infittisce se, parlando di segreto e occulto, inquadriamo la figura della Maddalena, anche detta Maria di Magdala, alla quale è intitolata questa chiesa, come la moglie di Gesù e non una semplice discepola.

La chiesa della Maddalena, ufficialmente conosciuta come Chiesa di Santa Maria Maddalena e San Girolamo Emiliani, sorge in una piazza incastonata nel cuore del centro storico di Genova e conferisce il suo nome anche all’omonimo quartiere.

Ad ogni modo, tali vicende occulte legate alla figura della Maddalena non ci colgono impreparati vista la relativa vicinanza con il villaggio francese di Saint-Maximin-la-Sainte-Baume dove sorge la Basilica di Santa Maria Maddalena che ospita il teschio della stessa e la montagna  dove pare abbia vissuto fino alla sua morte.

Quella che oggi è via della Maddalena, dove ci troviamo noi adesso, che nel corso del IX secolo si posizionava al di fuori delle mura, rappresentava un importante collegamento diretto con le vicinissime vie di San Luca e San Vincenzo, evitando il passaggio attraverso il centro della città.

Nel medioevo, con la costruzione delle mura del Barbarossa, e la progressiva crescita sia della città che degli insediamenti extraurbani, questo quartiere fu gradualmente incluso nel tessuto urbano.

Seguendoci passo passo in questo tour vedrete voi stessi come questi labirinti di caruggi si susseguano uno dopo l’altro, noi per primi riconosciamo il fatto che senza una meta precisa, alcuni di essi possono anche non venire mai percorsi durante una normale gita in città.

Sulla sinistra, vico dietro il coro delle Vigne, ci porta al cospetto di un’altra chiesa importante per il sestiere: Chiesa di Santa Maria delle Vigne. La chiesa è situata nella piazza e nei vicoli omonimi.

Come suggerisce il nome, sorge in una zona originariamente coltivata a vigneti, tra la cattedrale di San Siro (anch'essa al di fuori delle mura) e l'area di Soziglia, attraversata da un ruscello che irrigava gli orti. Costruita nel X secolo su una chiesa primitiva del VI secolo, la struttura si trovò presto integrata nella città in espansione, diventando parrocchia nel 1147 e assumendo un ruolo sempre più significativo per la comunità circostante, poiché non solo svolgeva funzioni religiose ma anche amministrative. Nel 1983, la chiesa venne elevata al rango di Basilica minore da Papa Giovanni Paolo II. 

Restaurata nel corso dei secoli per adattarla ai diversi stili architettonici (rinascimentale, barocco, neoclassico), la chiesa non ha mai subito modifiche al campanile, che si erge ancora con il suo originario stile romanico, conserva al suo interno una curiosità riguardante un sarcofago romano del II secolo. Si tratta di un sepolcro appartenuto ad un nobile medico genovese, Anselmo d’Incisa, che lavorò alla corte di papa Bonifacio VIII. All’interno della tomba, oltre al corpo del medico, sono stati ritrovati anche quello del figlio Giovanni, di Leonora Doria, morta nel 1335 e del marito Pietro Vivaldi. Il motivo per cui i corpi vennero sepolti tutti e quattro insieme è tutt’ora sconosciuto, ma non è finita qui; l’incisione sulla tomba riporta la data di morte di Anselmo d’Incisa, il 4 dicembre 1304, tuttavia, un atto di vendita di una casa dimostra che Anselmo fosse ancora vivo nel 1308.

In questo caso non abbiamo trovato da nessuna parte risposta alle nostre domande, se per caso tra voi lettori ci fosse qualcuno che ne sapesse qualcosa in più, potete scriverci! Apprezzeremmo moltissimo.

La nostra direttrice viaria continua di fatto su vico dei Greci, vico del Santo Sepolcro ed infine su via San Luca, dove al tempo cominciava a delinearsi la contrada dei Grimaldi, tanto che già vico San Luca risultava essere la piazzetta privata della famiglia. 

Gli edifici più antichi dai quali siamo attorniati risalgono all’incirca al XII secolo, compresa la casa-torre medievale degli Spinola situata in Vico alla Torre di San Luca, che scorgiamo a fatica. A partire dal ‘300 poi, proprio in questa zona, si concentrarono le dimore delle diverse famiglie aristocratiche genovesi quali Spinola, Grimaldi e Lomellini, e sempre qui continuò ad abitare nel Cinquecento quella parte di nobiltà che non si era ancora fatta ingolosire dall’urbanizzazione di Strada Nuova. 

Quella di San Luca, infatti, costituisce una delle più antiche contrade genovesi: nel 1188 Oberto Spinola fece erigere la chiesa gentilizia dedicata proprio al Santo nel luogo dove la ritroviamo oggi. La chiesa è tuttora parrocchia gentilizia dei discendenti che, a seguito di accordi firmati con la curia arcivescovile, mantiene la proprietà assumendosi l'onere del mantenimento della struttura e delle spese ordinarie.

A pochi passi di distanza dal luogo di culto troviamo Piazza Pellicceria, dove si erge maestoso Palazzo Spinola, museo-dimora oggi sede della Galleria Nazionale omonima.

Insieme a Palazzo Reale questi due musei sono gli unici della città ad appartenere allo Stato.


Palazzo Francesco Grimaldi

Quando i fratelli Paolo e Franco Spinola stabilirono che alla loro morte avrebbero donato alla Repubblica Italiana il loro palazzo, si posero le basi per la nascita della Galleria Nazionale della Liguria.

Il Palazzo Spinola, questo il suo nome attuale, ha subito numerosi interventi commissionati dai vari proprietari nel corso dei secoli. La struttura richiama il linguaggio architettonico del tardo XVI secolo, ma si differenzia per la presenza di due ingressi ambedue monumentali. Il primo grande ciclo decorativo delle sale, commissionato dai Grimaldi, fu realizzato dal pittore Lazzaro Tavarone. Il secondo proprietario, Ansaldo Pallavicino, verso la fine del Settecento, contribuì a dare lustro alla dimora trasferendovi parte della sua quadreria. Grazie a questa compravendita entrarono nel palazzo dipinti di Giovanni Benedetto Castiglione e Antoon Van Dyck, probabilmente l'artista prediletto di Ansaldo. Dopo aver oltrepassato la grande porta d'ingresso di Piazza Pellicceria, si può subito notare come il piano inferiore sia suddiviso architettonicamente da un atrio coperto ed un cortile. In corrispondenza di quest'ultimo, si apre un secondo portale che si allinea perfettamente con il primo, e che si affaccia su una seconda Piazza di Pellicceria (inferiore). Sulla sinistra dell'atrio coperto c'è un grande scalone monumentale che conduce ai piani nobili, mentre sulla parete destra si può ammirare una parte del monumento funebre dedicato a Francesco Spinola, risalente al XV secolo. Salendo lo scalone marmoreo, si accede al primo piano del palazzo che conserva ancora oggi gli affreschi delle imprese dei primi proprietari del palazzo, i Grimaldi.

Questi affreschi sono stati realizzati da Lazzaro Tavarone e sono legati a importanti eventi storici, come per esempio quello che troviamo nella prima sala che visitiamo a questo piano, che raffigura Francesco Grimaldi intento a guidare l'assedio di Lisbona del 1580, realizzato intorno al 1614 su commissione di Tommaso Grimaldi in memoria del padre. Ed è proprio in queste sale che si trovano alcuni ritratti dei Pallavicino realizzati da Antoon van Dyck, tra cui spiccano quelli di Ansaldo Pallavicino da Bambino e quello di Domenico Fiasella.

Proseguendo la visita del museo, arrivando al cospetto delle sale del secondo piano nobile, ci imbattiamo nei sostanziosi interventi apportati da Maddalena Doria, di cui vi abbiamo menzionato qui sopra. Nel salone più grande di questo piano, possiamo ammirare l'affresco del soffitto che celebra il trionfo di Rainieri Grimaldi durante la battaglia navale di Zierikzee, nei Paesi Bassi. Gli affreschi dei salotti successivi, invece, raffigurano temi e soggetti mitologici, tra cui le nozze di Amore e Psiche di Sebastiano Galeotti. Salendo ancora di un piano, si possono ammirare le zone una volta adibite agli alloggi della servitù e alle stanze private dei proprietari. Questo piano è stato devastato dai bombardamenti della Seconda Guerra Mondiale, tanto da dover prevedere, in occasione del lascito Spinola nel 1958 allo Stato, la ricostruzione dei vani del terzo e del quarto piano per ospitare la Galleria Nazionale della Liguria. Oggi questi due piani ospitano circa cinquanta dipinti di artisti dell'Età Moderna, al terzo piano, ed una raccolta di tessuti e ceramiche al quarto piano.francesco gri


Maddalena, donna di Genova

Dopo la morte di Paolo Francesco Doria nel 1732, sua sorella Maddalena ereditò l'edificio, trasformandolo completamente seguendo il suo gusto personale. Dopo il matrimonio con Nicolò Spinola, noto politico genovese da cui il palazzo prende tutt’ora il nome, Maddalena si dedicò alla trasformazione dell'edificio commissionando a numerosi artisti le decorazioni del secondo piano nobile. Il risultato è un'opera indelebile, caratterizzata dall'uso di specchi provenienti da Parigi e quadri disposti in modo strategico e funzionale alle stanze occupate; non a caso moltissime dislocazioni delle opere sono attualmente mantenute come in origine. 

Durante il tardo Settecendo le facciate del palazzo vennero dotate di un nuovo decoro in stucco che ancora oggi si conserva, dando all'edificio un aspetto Rococò, il raffinato stile europeo che tuttora fa di questo palazzo uno dei più belli di Genova.

Le cucine storiche di Palazzo Spinola rappresentano un'ambiente di servizio davvero unico, presentandosi in un aspetto che risale all'inizio dell'Ottocento. Durante quel periodo, il palazzo era abitato dal marchese Giacomo Spinola (1780-1858), la moglie Violantina Balbi (1785-1846) con i figli e una dozzina di servitori. Quando Franco e Paolo Spinola donarono il loro palazzo allo Stato per trasformarlo in un museo, non inclusero gli accessori della cucina. Di conseguenza, tutti gli utensili, le pentole e le stoviglie presenti sono frutto di donazioni da parte di associazioni e privati che, nel corso degli anni, hanno contribuito ad arricchire il mezzanino, rendendolo un ambiente davvero accogliente e familiare.


maldi

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